

CAIO VALERIO CATULLO
[VIVIAMO, MIA
LESBIA, E AMIAMO]
Viviamo, mia
Lesbia, e amiamo:
tutte le chiacchere dei vecchi brontoloni
- lasciale perdere, non valgono una lira.
Tramonta il sole e poi ritorna:
per noi, quando la breve luce è tramontata,
solo rimane il sonno di una notte senza fine.
Dammi mille baci, e ancora cento,
poi altri mille, e altri cento ancora,
e mille e cento e non fermarti mai.
Poi, quando ne avremo a migliaia,
li confonderemo, per non sapere
- perché nessuno sappia il mucchio
di quei baci, e non ci dia il malocchio.

(Sirmione, Verona, 84? –
Roma, 54? a.C.)
Vita.
Biografia incerta. Scarse e
incerte sono le notizie su C., di cui non ci è giunta alcuna biografia antica:
i suoi carmi restano la fonte principale per la conoscenza della sua vita, se
non proprio per le indicazioni più strettamente biografiche e cronologiche (di
cui praticamente sono privi), almeno per ricostruirne e comprenderne, in
generale, personalità e stati d'animo.
La formazione e l'ingresso
nel bel mondo romano. C. proveniva - come altri neoteroi - dalla Gallia
Cisalpina (ovvero, dall'Italia settentrionale) e apparteneva ad una famiglia
agiata: suo padre ospitò più di una volta Cesare nella loro villa a Sirmione,
sulle rive del Lago di Garda (come c'informa Svetonio). Trasferitosi a Roma
(intorno al 60) per gli studi, secondo la consuetudine dei giovani di famiglie
benestanti, C. trovò il luogo adatto dove sviluppare le sue doti di scrittore:
trovò, infatti, una Roma nel pieno dei processi di trasformazione (la vecchia
repubblica stava vivendo il suo tramonto), accompagnati da un generale
disfacimento dei costumi e da un crescente individualismo che caratterizzava le
lotte politiche, ma anche le vicende artistico-letterarie. Entrò a far parte
dei "neóteroi" o "poetae novi" ed entrò in contatto anche
con personaggi di notevole prestigio, come Quinto Ortensio Ortalo, grande uomo
politico e oratore, e Cornelio Nepote. Tuttavia, C. non partecipò mai
attivamente alla vita politica, anche se seguì sempre con animo attento o
ironico o sdegnato i casi violenti della guerra civile di quegli anni (non mancò
di attaccare violentemente Cesare e i suoi favoriti, specialmente il "prefectus
fabrum" Mamurra: ma Cesare seppe riconquistarlo…). Di contro, nella
capitale, un giovane come lui - esuberante e desideroso di piaceri e di
avventure - si lasciò prendere dal movimento, dal lusso, dalla confusione,
dalla libertà di costume e di comportamento pubblico e privato, che distingueva
la vita della città in quel momento. Tuttavia, la sua anima conservò sempre i
segni dell'educazione seria, anzi rigorosa, ricevuta nella sua provincia natale,
famosa per l'irreprensibilità morale dei suoi abitanti.
L'incontro con
Lesbia-Clodia. C. è stato definito, a buon diritto, come il poeta della
giovinezza e dell'amore, per il suo modo di scrivere e di pensare: il tema
principale della sua poesia è Lesbia, la donna che il poeta amò con ogni parte
del suo corpo e della sua anima, conosciuta nel 62, forse a Verona, più
probabilmente nella stessa Roma. Il vero nome della donna era Clodia, come ci
rivela Apuleio nel "De magia" (chiamata Lesbia, "la fanciulla di
Lesbo", perché il poeta implicitamente la paragona a Saffo, la poetessa e
la donna amorosa appunto di Lesbo), identificabile con la sorella del tribuno
della plebe (58) P. Clodio Pulcro (agitatore del partito dei "populares"
e alleato di Cesare, nonché mortale nemico di Cicerone), e moglie - per
interesse - del proconsole per il territorio cisalpino (tra il 62 e il 61) Q.
Metello Celere.
Una storia difficile. La
storia fra il poeta e Lesbia è molto travagliata: Clodia era una donna
elegante, raffinata, colta, ma anche libera nei suoi atteggiamenti e nel suo
comportamento: nelle poesie di C. abbiamo, così, diversi accenni allo stato
d'animo provato per lei, a volte di affetto e amore, a volte di ira per i
tradimenti di lei: tutto, fino all'addio finale.
Il lutto familiare e la
crescente delusione d'amore: il viaggio in Oriente. C. era a Roma, quando ebbe
la notizia della morte del fratello nella Troade. Tornò a Verona dai suoi e vi
stette per alcuni mesi, ma le notizie da Roma gli confermavano i tradimenti di
Lesbia (ora legata a M. Celio Rufo, quello stesso che Cicerone difese nella
"Pro Caelio", rappresentando Clodia come una mondana d'alto rango,
viziosa e corrotta). Il poeta fece così ritorno nella capitale, sia perché non
riusciva a star lontano dalla vita romana, sia per l’ormai insostenibile
gelosia. Deciso, infine, ad allontanarsi definitivamente da Roma, per
dimenticare le sofferenza e riaffermare il proprio patrimonio, il poeta
accompagnò, nel 57, il pretore Caio Memmio in Bitinia, esattamente il
dedicatario del "De rerum natura" di Lucrezio. Laggiù, in Asia, il
giovane C. entrò in contatto con l'ambiente intellettuale dei paesi d'Oriente;
fu probabilmente dopo questo viaggio, dopo essersi recato alla tomba del
fratello nella Troade per compiangerlo, che compose i suoi poemi più
sofisticati, una volta tornato in patria.
Il ritorno e la morte. C.
tornò dal suo viaggio nel 56, e si recò nella villa di Sirmione, dove
trascorse gli ultimi due anni della sua vita, consumato fisicamente da
un’oscura malattia (mal sottile?) e psichicamente dalla sfortunata esperienza
d’amore e dal dolore per la morte del fratello.
