

GIOVANNI
PASCOLI
Giovanni
Pascoli nacque
a San Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855. Da ragazzo fu nel collegio dei
Padri Scolopi ad Urbino, quindi nei licei di Rimini e di Firenze. Nel 1867, il
padre, mentre tornava a casa su un calessino trainato da una cavalla storna,
rievocata in una poesia, fu ucciso. Non si seppe mai chi fosse l’assassino
ed il delitto rimase perciò impunito. Poco dopo la morte del padre il Pascoli
perse anche la madre e le due sorelle: e la famiglia, composta prevalentemente
di ragazzi, cadde nella miseria e nel dolore. Il poeta poté giungere alla
laurea, grazie ad una borsa di studio che gli permise di frequentare
l’università di Bologna. Su questo fatto importante egli ha lasciato una
commossa rievocazione nel racconto Ricordi di un vecchio scolaro.
Certamente le vicende
tristissime della sua famiglia, a cui egli assistette da fanciullo, e poi le
difficoltà economiche e gli ostacoli da superare, sempre solo, lasciarono un
solco profondo nel suo animo ed influirono sul suo carattere e conseguentemente
sulla sua poesia.
Da professore insegnò a Matera e quindi a Massa ed a Livorno, ma, avendo
assunto atteggiamenti anarchici, fu trasferito a Messina. Ma non fu un ribelle,
anzi, alla maniera decadente si chiuse nel suo dolore, si isolò in se stesso,
solo con le sue memorie e con i suoi morti. La sua ribellione fu un senso di
ripulsa e di avversione per una società in cui era possibile uccidere
impunemente e nella quale si permetteva che una famiglia di ragazzi vivesse
nella sofferenza e nella miseria.
Non c’è ribellione nella sua poesia, ma rassegnazione al male, una certa
passività di fronte ad esso: vi domina una malinconia diffusa nella quale il
poeta immerge tutto: uomini e cose. Egli accetta la realtà triste come è, e si
sottomette al mistero che non riesce a spiegare. La sua poesia non ha una trama
narrativa e non è neppure descrittiva: esprime soltanto degli stati d’animo,
delle meditazioni. E' l’ascolto della sua anima e delle voci misteriose che
gli giungono da lontano: dalla natura o dai morti.
Pascoli
«Il poeta è
poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non
tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del
maestro, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di
tanti altri, un artista che nielli e ceselli l'oro che altri gli porga. A
costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione,
che il modo col quale agli altri trasmette l' uno e l' altra. Egli, anzi, quando
li trasmette, pur essendo in cospetto d'un pubblico, parla piuttosto tra sé,
che a quello. Del pubblico, non pare che si accorga. Parla forte (ma non tanto!)
più per udir meglio esso, che per farsi intendere da altrui. É, per usare
immagini che sono presenti ora al mio spirito, è, sì, per quanto possa
spiacere il dirlo, un ortolano; un ortolano, sì, o un giardiniere, che fa
nascere e crescere fiori o cavolfiori. Sapete che cosa non è? Non è cuoco e
non è fiorista, che i cavolfiori serva in bei piatti, con buoni intingoli, che
i fiori intrecci in mazzetti o in ghirlandette. Egli non sa se non levare al
cavolo qualche foglia marcia o bacata, e legare i fiori alla meglio, con un
torchietto che strappa lì per lì a un salcio: come a dire, unisce i suoi
pensieri con quel ritmo nativo, che è nell'anima del bimbo che poppa e del
monello che ruzza.
Ora il poeta sarà invece un autore di provvidenze civili e sociali? Senza
accorgersene, se mai. Si trova esso tra la folla; e vede passar le bandiere e
sonar le trombe. Getta la sua parola, la quale tutti gli altri, appena esso l'ha
pronunziata, sentono che è quella che avrebbero pronunziata loro. Si trova
ancora tra la folla: vede buttare in istrada le masserizie di una famiglia
povera. Ed esso dice la parola, che si trova subito piena delle lagrime di
tutti.
Il poeta è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che
nessuno avrebbe detta. Ma non è lui che sale su una sedia o su un tavolo, ad
arringare. Egli non trascina, ma é trascinato; non persuade, ma è persuaso.»
[…]
«Bene! Dunque riassumo, come uomo serio che sono. La poesia, per ciò stesso
che è poesia, senz'essere poesia morale, civile, patriottica, sociale, giova
alla moralità, alla civiltà, alla patria, alla società. Il poeta non deve
avere, non ha, altro fine (non dico di ricchezza, non di gloriola o di gloria)
che quello di riconfondersi nella natura, donde uscì, lasciando in essa un
accento, un raggio, un palpito nuovo, eterno, suo. I poeti hanno abbellito agli
occhi, alla memoria, al pensiero degli uomini, la terra, il mare, il cielo, l'
amore, il dolore, la virtù; e gli uomini non sanno il loro nome. Ché i nomi
che essi dicono e vantano, sono, sempre o quasi sempre, d'epigoni, d'ingegnosi
ripetitori, di ripulitori eleganti, quando non siano nomi senza soggetto. Quando
fioriva la vera poesia; quella, voglio dire, che si trova, non si fa, si scopre,
non s'inventa; si badava alla poesia e non si guardava al poeta; se era vecchio
o giovane, bello o brutto, calvo o capelluto, grasso o magro: dove nato, come
cresciuto, quando morto. Siffatte quisquilie intorno alla vita del poeta si
cominciarono a narrare a studiare a indagare, quando il poeta stesso volle
richiamare sopra sé l'attenzione e l'ammirazione che è dovuta soltanto alla
poesia. E fu male. E il male ingrossa sempre più. I poeti dei nostri tempi
sembrano cercare, invece delle gemme che ho detto, e trovare, quella vanità che
è la loro persona. Non codesta quei primi. E tu, o fanciullo, vorresti fare
quello che fecero quei primi, col compenso che quei primi n'ebbero; compenso che
tu reputi grande, perché sebbene non nominati, i veri poeti vivono nelle cose
le quali, per noi, fecero essi.
É così?
Sì.»
